Dal FORUM COMUNICAZIONE 2025, proponiamo l'approfondimento del Tavolo Tematico
| #purpose | PURPOSE FIRST: LA BUSSOLA STRATEGICA PER AZIENDE E PERSONE.
APPROFONDIMENTO
Il purpose aziendale oggi: bussola strategica, leva culturale e linguaggio comune
Negli ultimi anni, il concetto di “purpose” è diventato centrale nel lessico aziendale. Ma cosa significa davvero? È solo una dichiarazione valoriale? Una visione? O rappresenta qualcosa di più profondo e trasformativo? Sempre più aziende parlano di purpose come di una sorta di “manifesto” da esibire. Ma la verità è che oggi il purpose non può e non deve essere ridotto a uno slogan o a una frase ispirazionale da appendere alle pareti. Il purpose, se vissuto davvero, è l’unico linguaggio comune capace di unire funzioni aziendali spesso scollegate, di orientare scelte e comportamenti, di dare significato all’agire quotidiano. È un patto, un impegno concreto. E come ogni impegno, chiede coerenza, responsabilità e coraggio.
Il purpose come bussola strategica
Nel panorama competitivo e iperconnesso di oggi, il purpose rappresenta molto più di una dichiarazione d’intenti. È la guida che orienta tutte le scelte aziendali: dalla strategia alla comunicazione, dalla gestione delle risorse umane allo sviluppo di prodotto. Non è più sufficiente dire cosa facciamo come fornitori di beni o servizi; è fondamentale sapere chi siamo come azienda, e perché facciamo ciò che facciamo.
Questa distinzione è cruciale. Un’azienda può vendere prodotti eccellenti, ma se manca un senso condiviso e profondo della propria esistenza, rischia di diventare intercambiabile, priva di anima, priva di significato.
Il purpose è, in definitiva, ciò che rende un’azienda riconoscibile, affidabile, degna di fiducia.
Il ruolo della leadership: il purpose si porta, non si delega
Chi guida l’organizzazione è anche custode e portatore del purpose. Non si tratta di una funzione che può essere delegata al marketing o al dipartimento HR: il purpose vive (o muore) nella leadership.
Quando i leader credono profondamente nel purpose e lo incarnano nei propri comportamenti quotidiani, creano le condizioni per un’organizzazione coerente, motivata, autentica. Al contrario, quando il top management predica bene ma razzola male, l’intero castello rischia di crollare. Perché oggi più che mai il mercato, interno ed esterno, è in grado di riconoscere l’ipocrisia. L’autenticità è dunque la prima garanzia di efficacia. Un purpose fittizio, costruito a tavolino per motivi d’immagine, si sbriciola alla prima incoerenza.
E quando la promessa di purpose viene tradita, sono le persone, soprattutto quelle più giovani e consapevoli,
a scegliere di andarsene.
Purpose come KPI: misurare il senso
Parlare di purpose significa anche riconoscerne l’impatto sul business. Non è una componente “soft”, accessoria o emotiva. È una leva strategica che incide su KPI fondamentali: attrattività del brand, retention dei talenti, engagement dei dipendenti, capacità di innovazione, reputazione pubblica, differenziazione sul mercato. Per questo motivo, gli effetti del purpose andrebbero misurati, proprio come ogni altra leva aziendale. Un purpose ben radicato può generare ROI, non solo economico, ma anche culturale, umano, sociale. Il problema è che spesso mancano gli strumenti per farlo. Servono indicatori che sappiano cogliere la coerenza tra il dire e il fare, il grado di allineamento tra strategia e cultura, la soddisfazione interna legata al senso del lavoro. Solo così il purpose smette di essere retorica e diventa metrica.
La comunicazione: fondamento della messa a terra
La comunicazione non è un’appendice del purpose: è il suo fondamento. Senza comunicazione, il purpose resta invisibile, astratto, irrealizzabile. Va raccontato, condiviso, declinato, aggiornato. Internamente, per creare allineamento e senso di appartenenza. Esternamente, per distinguersi e attirare chi condivide la stessa visione.
Ma attenzione: non si tratta di una comunicazione “pubblicitaria”, bensì di un racconto autentico, coerente, costante. Il purpose non si impone, si dimostra. Ogni azione, ogni decisione, ogni campagna deve rifletterlo. E ogni incoerenza, ogni cortocircuito tra ciò che si dice e ciò che si fa, rischia di minarne la credibilità.
Comunicare il purpose, dunque, è un esercizio di trasparenza e di ascolto. Non basta proclamarlo: bisogna mostrarlo in azione, ogni giorno.
Quando il purpose diventa pratica quotidiana
Il vero banco di prova del purpose è la sua traduzione nella pratica. È lì che smette di essere teoria e diventa criterio di scelta. È nei “no” che si decide di dire. Nelle iniziative che si scelgono di non intraprendere. Nei partner con cui si decide di non lavorare. Nelle campagne che si rifiutano di firmare. Nei processi che si cambiano, anche se costa.
Un esempio concreto? Pensiamo a un’azienda del settore fashion che decide di rinunciare a una linea produttiva molto redditizia perché non rispetta determinati standard etici o ambientali. È una scelta coraggiosa, certo. Ma se il suo purpose è davvero “moda sostenibile”, allora non è solo una scelta coerente: è l’unica possibile.
La coerenza, infatti, è la parola chiave della messa a terra. Applicare il purpose significa rendere ogni scelta, ogni comportamento, ogni processo un riflesso di quell’impegno. Significa accettare la complessità, e a volte anche la scomodità, di fare ciò che è giusto, non solo ciò che conviene.
Gestione delle persone: dove il purpose prende forma
È nella gestione delle persone che il purpose mostra il suo volto più concreto. Perché è lì che diventa cultura, relazione, quotidianità. Un’azienda che vive davvero il proprio purpose non lo usa solo per attrarre talenti, ma per ispirarli, valorizzarli, coinvolgerli.
Il purpose, se autentico, migliora la felicità e il senso di appartenenza. Aiuta le persone a trovare significato in ciò che fanno. Le rende parte di qualcosa di più grande, che va oltre il profitto. E in un mondo in cui il lavoro è sempre più cercato come spazio di realizzazione personale, questo può fare la differenza.
Tuttavia, questo richiede un lavoro profondo e continuo di allineamento tra valori dichiarati e comportamenti agiti. Ogni incoerenza tra ciò che l’azienda proclama e ciò che realmente accade nei team, nei colloqui, nelle valutazioni, negli avanzamenti di carriera, crea disillusione. E la disillusione, oggi, ha un costo altissimo.
Il coraggio del purpose: una scelta difficile, ma necessaria
Applicare il purpose richiede coraggio. E investimenti. Non è la strada più facile, né quella più immediatamente redditizia. Ma è la più solida nel lungo periodo.
Perché un’azienda che vive il proprio purpose costruisce fiducia, coesione, reputazione. E queste sono le basi di un business sostenibile, nel senso più ampio del termine.
Parlare di purpose, quindi, non significa ignorare la performance. Significa costruirla su fondamenta più profonde. Significa cambiare mindset, passare da una logica puramente estrattiva a una logica generativa. Significa non solo misurare ciò che si produce, ma anche ciò che si restituisce: alle persone, alla comunità, al pianeta.
Una questione culturale
Infine, il purpose è – inevitabilmente – una questione culturale. Non basta scriverlo, bisogna viverlo. E per viverlo, serve una cultura aziendale che lo riconosca, lo sostenga, lo alimenti.
Questo significa lavorare sulla formazione, sulla leadership, sulla comunicazione interna, sull’ascolto. Significa creare spazi di confronto, accettare il dissenso, accogliere la complessità. Significa evolvere, senza perdere di vista il senso.
Un purpose vero non è mai statico. Cresce con l’azienda, si adatta, si arricchisce. Ma non tradisce mai i suoi principi fondamentali. E soprattutto, non viene mai dato per scontato.
Conclusione: il senso più profondo dell’azienda
In definitiva, il purpose non è uno strumento, né un elemento accessorio. È il cuore stesso dell’impresa. Il senso profondo di ciò che l’azienda è, di ciò che vuole essere, di ciò che vuole lasciare.
È una promessa. Ma, come ogni promessa, vale solo se viene mantenuta.
Ecco perché la comunicazione, la coerenza, la leadership, la cultura, la gestione delle persone, l’ascolto e la misurazione sono tutte dimensioni fondamentali per far vivere davvero il purpose. Non come slogan, ma come realtà.
Il futuro delle aziende non appartiene a chi urla più forte. Ma a chi sa perché esiste. E lo dimostra ogni giorno.
Moderatore: Michele Rinaldi, CEO & Head of Strategy di Soluzione Group.
Sono intervenuti:
Claudio Della Porta, Key Account Manager in iSapiens;
Luigi Irione, CEO & Founder di Genuina Hub;
Cristiana Monina, Founder - CEO/Partner di Monina Corporate Sailing;
Valentina Monti, Direttrice Marketing e Responsabile per la Parità di Genere in Biochemical Systems International;
Federico Pupeschi, Communication Manager in GreenGo;
Sara Secomandi, Chief Communications and Sustainability Officer in Tenova;
Martina Tombari, Founder & CEO di Walà;
Laura Zecchini, External Communication South Europe Manager in Bosch Rexroth Italia.